Divina Commedia/Inferno/’Ulisse e Diomede’, Canto XXVI- I consiglieri di frode, avvolti da un eterno fuoco, e l’incontro con Ulisse che racconta a Virgilio e Dante la morte sua e dei suoi compagni, gli Argonauti, in un viaggio ai confini del mondo.

0
5197

Per le celebrazioni del 700° anniversario dalla morte di Dante Alighieri, “Tremiti Genius Loci”, seppure simbolicamente, si associa ai Piccoli Comuni italiani che, rendono omaggio al Sommo Poeta Dante Alighieri o Alighiero, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri, avvenuta a Ravenna, suo luogo d’esilio, nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321 pubblicando sul Portale il Canto XXVI, nel quale si tratta de l’ottava bolgia contro a quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro a’ fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d’Ulisse e Diomedes pone loro pene.

Divina Commedia/Inferno/’Ulisse e Diomede’,

Canto XXVI

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande! 3

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali. 6

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. 9

E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo. 12

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee; 15

e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia. 18

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, 21

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. 24

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa, 27



come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara: 30

di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. 33


E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi, 36

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire: 39

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola. 42

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto. 45

E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: “Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso”. 48
“Maestro mio”, rispuos’io, “per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti: 51

chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?”. 54

Rispuose a me: “Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira; 57

e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme. 60
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta”. 63

“S’ei posson dentro da quelle faville
parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille, 66

che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!”. 69

Ed elli a me: “La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna. 72

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto”. 75

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi: 78

“O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco 81

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi”. 84

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica; 87

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: “Quando 90

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse, 93

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta, 96

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore; 99

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto. 102

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna. 105

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi 108

acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta. 111

“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia 114

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente. 117
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. 120

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti; 123

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino. 126

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo. 129

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo, 132

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna. 135

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto. 138

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 141

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.

1
2
03
003
02
3
4
5
6
7
1 2 03 003 02 3 4 5 6 7

Parafrasi canto 26 (XXVI) dell’Inferno di Dante

Parafrasi del Canto XXVI dell’Inferno – I consiglieri di frode, avvolti da un eterno fuoco, e l’incontro con Ulisse che racconta a Virgilio e Dante la morte sua e dei suoi compagni, gli Argonauti, in un viaggio ai confini del mondo.

Godi Firenze, sii soddisfatta, perché sei tanto grande
che la tua fama vola ovunque per mare e per terra,
e perfino nell’inferno si diffonde il tuo nome!

Tra i ladroni, trovai cinque tuoi cittadini di buon ceto sociale
che mi fecero provare vergogna per le mie origini,
e tu non puoi certo guadagnarne in onore.

Ma se gli ultimi sogni del mattino sono presagi del futuro,
tu sentirai, tra non molto tempo,
la durezza dei mali che Prato, insieme ad altre città, desidera ardentemente che ti capitino.

E se fossero già capitati, non sarebbe troppo presto.
Magari fossero già avvenuti, dato che dovranno per forza accadere!
Perché mi peserà tanto di più, quando più sarò ormai vecchio.

Ripartimmo, e su per le scale, fatte di massi sporgenti,
che prima avevamo percorso discendendo,
risalì la mia guida conducendo al seguito anche me;

e continuammo il cammino lungo una via solitaria
tra le schegge e tra i massi della parete rocciosa;
il piede senza l’aiuto della mano non riusciva a procedere oltre.

Mi rattristai quindi, e mi rende ancora triste oggi
riportare alla mente ciò che allora vidi,
e limito quindi il mio ingegno più di quanto non sia solito fare,

perché non corra senza essere guidato dalla virtù;
così che, sa la mia buona stella o la divina provvidenza
mi hanno fatto dono dell’ingegno, io non possa usarlo contro di me, recandomi danno, come farebbe un nemico invidioso.

Quante il contadino che si riposa in collina,
d’estate, quando il sole, che illumina il mondo,
ci mostra la sua faccia in modo meno nascosto,

non appena, al tramonto, le mosche lasciano il posto alle zanzare,
vede lucciole giù per la vallata,
presenti forse anche là dove prima vendemmiava ed arava:

di altrettante fiamme risplendeva tutta quanta
l’ottava bolgia, così come me ne resi conto non appena
giunsi là dove riuscivo a scorgere il fondo della valle.

E come Eliseo, colui che ottenne vendetta per mezzo di orsi,
vide la partenza del carro su cui si trovava Elia
quando i cavalli che lo trainavano si levarono dritti al cielo,

e non era in grado di seguirne il percorso con gli occhi
riuscendo a vedere nulla d’altro che una sola fiamma
salire in cielo simile ad una nuvoletta:

allo stesso modo si muoveva ogni fiammella che vedevo,
lungo la gola di quel fossato, senza lasciare intravedere il peccatore rapito in essa,
ed ognuna al proprio interno ne nascondeva uno.

Io stavo sul ponte, sporto in avanti per vedere meglio,
tanto che se non mi fosse aggrappato da un masso sporgente,
sarei di certo caduto giù anche senza essere stato spinto.

E Virgilio, che mi vide tanto attento,
mi disse: “Dentro quei fuochi ci sono gli spiriti dannati;
ciascuno è ricoperto di quel fuoco da cui è bruciato.”

“Mio maestro”, risposi, “sentendotelo anche dire,
sono ora più certo di ciò che vedo; ma già prima avevo pensato
che le cose stessero come tu dici, e già volevo domandarti:

chi c’è in quel fuoco che viene verso noi, diviso
in alto in due fiamme, tanto che sembra essere stato generato dalla pira sulla quale
furono bruciati i cadaveri di Eteocle e del fratello Polinice?

Mi rispose la mia guida: “Là dentro scontano la loro pena
Ulisse e Diomede, che così come insieme
suscitarono l’ira di Dio, insieme ne subiscono le conseguenze;

e dentro alla loro fiamma piangono
l’inganno fatto a Troia con il famoso cavallo, che aprì la via
dalle quale uscì Enea, fondatore di Roma.

Piangono anche per la triste astuzia a causa della quale
Deidamia, anche se ormai morta, piange ancora della perdita del suo Achille,
ed anche per rapimento di Palladio.”

“Se possono, seppure dentro a quelle fiamma,
parlare”, dissi allora io, “maestro, ti prego intensamente
e ti prego ancora, così che la mia preghiera valga quanto mille,

di non impedirmi di rimanere qui ad aspettare
fino a ché quella fiamma a doppia punta sia qui giunta;
vedi quanto mi sporgo, spinto dal desiderio di parlare con loro, verso quella fiamma!”

E Virgilio mi disse quindi: “La tua preghiera e degna
di molta lode, e perciò sono disposto ad esaudirla;
ma trattieniti però dal parlare con loro.

Lascia parlare me, ho ben capito ciò che tu
vorresti chiedere loro; perché altrimenti loro,
essendo greci, non si degnerebbero di ascoltarti.”

Quando la fiamma giunse là dove
la mia guida ritenne che fosse tempo e luogo di parlare,
sentii lui esprimersi in questo modo:

“O voi, che vi trovate ad essere in due dentro ad un solo fuoco,
per i meriti acquistati davanti a voi quando fui in vita,
per i meriti acquistati davanti a voi, molti o pochi che furono,

quando, ancora al mondo, scrissi gli immortali versi,
fermatevi qui un poco; e uno di voi, Ulisse, ci racconti
dove, per sua colpa, andò a morire smarrito nei suoi viaggi.”

Il corno, la metà maggiore della fiamma accesa in tempi antichi
incominciò ad agitarsi, mormorando e vibrando
come fa la fiamma affaticata dal vento;

vibrò la propria punta di qua e di là,
quasi come fosse una lingua che parlava,
buttò fuori la voce e disse quindi: “Quando

mi separai da Circe, che mi sequestrò
per più di un anno sul monte Circello vicino a Gaeta,
prima ancora che Enea attribuì questo nome alla città,

né l’affetto verso mio figlio Telemaco, né la pietà
verso il mio vecchio padre Laerte, né il doveroso amore
che avrebbe dovuto rendere felice la mia sposa Penelope,

poterono vincere l’ardente desiderio, che sentivo in me,
di esplorare il mondo, per divenire un esperto conoscitore suo,
dei vizi e delle virtù dell’uomo.

quindi mi spinsi verso il mare aperto
con solo una nave e quel piccolo gruppo di compagni
che mai mi abbandonò.

Vidi l’una e l’altra costa del mediterraneo, fino alla Spagna
e fino al Marocco, vidi la Sardegna
e tutte le altre isole bagnate da quel mare.

Io ed i miei compagni di viaggio eravamo ormai vecchi e lenti
quando giungemmo a quello stretto passaggio
dove Ercole costruì le sue due colonne, come limiti invalicabili,

affinché l’uomo non si fosse spinto oltre;
lasciai alla mia destra Siviglia
ed alla mia sinistra Ceuta.

“Fratelli”, dissi ai miei compagni, “che affrontando mille
pericoli siete infine giunti all’estremo occidente del mondo abitato,
in questa tanto breve vigilia

della pace dei sensi, che ancora vi resta da vivere,
non vogliate negarvi la possibilità di conoscere,
il mondo disabitato, seguendo verso Ovest il cammino del sole.

Tenete a mente le vostre origini:
non siete nati per viver una vita inutile, come bestie,
ma siete nati invece per vivere di virtù e di conoscenza.”

Stimolai talmente i miei compagni,
con queste poche parole, a proseguire oltre,
che, l’avessi voluto, a stento sarei stato in grado di trattenerli;

voltata la nostra poppa verso oriente, dove sorge il sole,
utilizzammo i remi, come fossero ali, per il nostro folle volo,
procedendo sempre in direzione sud-ovest.

Già incominciavamo a vedere di notte tutte le stelle
dell’emisfero australe, e la stella polare tanto bassa all’orizzonte
che infine non emerse più dal livello del mare.

Già per cinque volte si era riaccesa e per tante volte spenta
la luce emanata dalla faccia della luna rivolta verso la terra,
da quando avevamo fatto quel passo estremo,

quando ci apparve alla vista una montagna (il paradiso), scura
per la distanza, e mi sembrava tanto alta
quanto mai avevo potuto vederne prima d’allora.

A quella vista ci rallegrammo, ma subito iniziò invece il pianto;
poiché da quella terra inesplorata si scatenò un vortice
che percosse la prua della nostra nave.

La fece girare su sé stessa per tre volte insieme al mare circostante;
alla quarta volta fece alzare in cielo la poppa
ed andare in basso la prua, affondandoci, come a Dio piacque,

finché il mare si richiuse sopra di noi.”